martedì 29 giugno 2021

Capitolo 8



[Giselda 2004]

Di notte sogno ancora spesso che arriva il treno e faccio appena in tempo a ripararmi nella rientranza, che rischio ogni volta che il treno mi trascina via.
Il casello, casa mia, dove ho vissuto fino a 19 anni, quando mi sono sposata, era proprio sui binari.
Al piano di sopra la porta di uscita dava su un balconcino, ai lati del quale mia mamma aveva messo tanti fiori, dei bellissimi oleandri.
I treni che passavano buttavano giù delle bistecche e altra roba vicino alle case. Sapevano che la gente era povera.
Il balconcino che dicevo finiva direttamente sui binari del treno. I binari passavano su un terrapieno, che poi arrivava al ponte sul fiume. Dal bordo del terrapieno ai binari c'era meno di un metro. Era pericolosa una struttura così, con il balcone che dava direttamente sui binari.
Sul ponte lo spazio tra i binari e il bordo era ridottissimo. Ogni tanto c'erano delle rientranze in cui la gente che lavorava poteva trovare spazio per non essere investita dal treno. Pare che il treno ha una straordinaria capacità di risucchio. Una volta un ragazzo che conoscevo era in giro con una banda. Lui non era abbastanza svelto per scappare nelle rientranze e il treno l'ha risucchiato sotto.

Quando io andavo a lavorare in città, avevo dodici anni. Lavoravo in un'officina dove si facevano calze di nylon. Ero un'operaia. Bene, per andare in città andavo in bicicletta, ma passando sul ponte della ferrovia. Se arrivava il treno correvo al riparo. Ma tanto mi ero allenata in tutti quegli anni in cui mettevo i petardi.
Dal Sciur Pierino facevo le calze con delle magliere con degli aghi così piccoli da poterci tessere i punti di una calza di nylon! Le puntine delle macchine erano rovinate, ma dovevamo infilare i punti. Quando la calza era finita, si doveva cucire infilando i punti. Se ne perdevi uno, la calza si disfava. Delle operaie tiravano con forza le calze per vedere se partivano i punti. In caso, si raccoglieva il punto e si aggiustavano, ma era un danno per la produzione.
Io avevo sonno, perché dovevo fare i turni dalle sei del mattino alle due di pomeriggio e dalle due di pomeriggio alle dieci di sera. Siccome facevo fatica a vedere, mi versavo l'acqua sui piedi per non addormentarmi. Ma non riuscivo mai a finire le dozzine di calze, allora andavo alle cinque del mattino anziché alle sei, per portarmi avanti. Ma non riuscivo lo stesso a fare tutte le dozzine di calze assegnate, allora le nascondevo nella borsa per farle sparire e le portavo a casa, per buttarle. Ma poi han cominciato a contarle, perché avevano capito che le operaie le facevano sparire perché non riuscivano a finire il carico. Il figlio del Sciur Pierino ci controllava, mi fissava sempre. Pensavo che era perché gli piacevo, ma probabilmente stava solo controllando se lavoravamo o no. 

Ho lavorato così fino a quando ho avuto ventiquattro anni. Mi ero sposata a diciannove. Quando ho avuto ventiquattro anni, mia mamma è morta, allora Aurelio mi ha detto di non andare più a lavorare. Lui lavorava abbastanza per due e avevamo comprato la casa. Erano gli anni sessanta, c'era tanto lavoro, per cui io potevo stare a casa. Quel lavoro infernale era troppo pesante per me, ma a volte di notte mi sogno ancora che sono dal Sciur Pierino a fare dozzine e dozzine di calze e non riesco mai a finirle.


[Foto di sergio souza da Pexels]

Capitolo 7


[Isaura 1996]

Io mi vergognerei. Fossi in lei. Ma non si vergogna? 
Stavo cercando una cosa nel cassetto delle camicette belle, quando ho trovato quella foto. Di quel tizio. È una foto vecchia, si vede, bianco e nero, e quel tizio era giovane lì. E vestito da militare. Ha un'aria famigliare. Questa foto non me la ricordo però, ce n'erano altre, le avevo viste tempo fa. Lei me le aveva mostrate con quell'espressione idiota sulla faccia, quasi gongolante, direi. Che odio.

Se lo sapesse pà! Pà che si sbatte tanto, ha lavorato una vita, come un mulo. L'ha sempre aiutata. Andava a comprare il pane, anche con me piccola, mi faceva giocare. Quando lavorava correva a casa per il pranzo, mi veniva a prendere a scuola, mangiava di fretta e tornava al lavoro. E poi tornava la sera stanco. E nonostante tutto, aiutava anche a fare i mestieri. E la spesa la faceva lui. 
Lei è sempre stata la regina della casa. Ha sempre avuto un fascino strano. Gli uomini cadevano come mosche al suo passaggio. 
È sempre stata bella. E ammaliante. Aveva questi capelli scuri, questi occhi scuri, questo sguardo accattivante e questi lineamenti dolci e perfetti.
Non come me. Io non ho mai capito se ero bella o no. A volte pensavo di esserlo, ma spesso ho avuto il dubbio di avere qualcosa che non andasse. Quando ero piccola ero bionda, come molti bambini. Un giorno i miei capelli hanno iniziato a scurirsi. E poi mi ricordo di quella volta in cui mi sono accorta di avere un naso con la gobbetta. Me ne sono accorta quasi all'improvviso. Non avevo più il mio bel nasino di bambola, ma quella fastidiosa gobbetta che lo curvava antipaticamente. Mi ricordo di aver sperato che la cosa fosse reversibile, ma non lo era. La mamma diceva che avevo preso quel naso da suo papà. Io i nonni non li ho mai visti. Sono morti prima che nascessi io. Mio nonno abitava qui accanto. La nonna era già morta, ma lui è rimasto ancora per un po', finché non è stato stroncato dall'ennesimo infarto. Aveva suonato il campanello dell'allarme, ma quando la mamma è corsa di là, lui se n'era già andato. Era il 1975. Io sono arrivata quattro anni dopo. E così dovevo ringraziare questo nonno sconosciuto per avermi lasciato questo bel naso storto. Saltava una generazione, a quanto pareva, perché mia mamma era così perfetta!

E comunque odio questa cosa, il fatto che lei conservi, nascosta nel cassetto, la foto di quel tizio greco.
Mi ricordo le loro voci. Ricordo, di quando ero piccola, questo suono esotico, che portava lontano. Le voci dei greci riempivano il pomeriggio, mentre io girellavo sul balcone di ringhiera. Dopo la morte del nonno, la zia, che aveva ereditato quelle due stanze, aveva deciso di affittare ai greci. Ce n'erano tanti nella nostra città, a fare l'università, in quegli anni. Una volta sono andata di là, ero molto piccola, e avevo visto la luce dentro quella scatola vetrosa. Loro mi guardavano e ridevano, le loro strane voci avevano quella cantilena di luoghi lontani. Io ero ipnotizzata dalla luce dietro il vetro. L'ho toccata con il dito e mi sono scottata. Era il forno.

Non tutti i greci erano antipatici. Si alternavano, negli anni. C'era Giorgio, che era tanto simpatico e mi aveva regalato due peluche, a forma di orso, uno più piccolo e uno più grande. Li avevamo chiamati Giorgino e Giorgetto, per ricordarmi di lui. Era un tipo affabile, con gli occhiali fumé e i baffi biondicci. Mi ricordo che mi voleva bene e mi faceva giocare.
Poi c'era Atanasio, che odiavo e adoravo al contempo. Quando ero piccola ero affascinata da tutti i maschi, esterni alla famiglia, più grandi di me. E quindi anche da lui. Studiava medicina e veniva spesso in casa nostra, per usare il telefono. Per mantenersi agli studi lavorava con Stavros a una ditta di bottoni. E mi portava sempre mille campionari. Avevo una collezione stupenda di bottoni eleganti, divisi per modello, di tutte le dimensioni possibili. Ci giocavo per ore. Ma Atanasio era proprio antipatico. Non era affatto bello, era allampanato e con un nasone e la faccia lunga e pochi capelli e gli occhiali. E mi prendeva sempre in giro. Mi chiamava "Ciocca!" e mi faceva i dispetti. A volte la mamma ci litigava furiosamente.
Prima di lui c'erano stati altri greci, di cui ricordavo solo il nome. Di uno avevo pure un vaghissimo ricordo perso al di là del tempo. Il primo, un tipo buono e gentile, si chiamava Christos, e ha sempre telefonato ai miei, per Natale e Pasqua. Ogni tanto capitava in Italia e tornava a trovarci. Non avevo memoria di lui, di quando era stato qui, da studente. Ma avevo imparato a conoscerlo quando tornava nella nostra città per salutarci. Era un distillato di grecità e prendeva la vita con molta filosofia. Mi piaceva la sua voce, mi piaceva il suo accento. Ed era una fonte di allegria e cordialità, gioia di vivere e altruismo.
L'altro invece si chiamava Kyros e aneddoti su di lui, raccontati da mia mamma, costellavano la mia infanzia. Era di lui che avevo un vaghissimo ricordo, era stato qui quando avevo meno di due anni. Veniva sempre nominato, da lei, quando non c'era mio papà. Le brillavano gli occhi e ben presto ho cominciato a odiarlo. 
Dapprima credevo che fosse un amico dei miei, come gli altri. 
Ricevevo regalini da lui e dalla sua famiglia. Mi arrivavano per posta. 
Bambole, vestitini, piccoli gioielli. Una volta sua sorella mi ha mandato un diario, molto bello, da scrivere, con i disegni di una bambina e il lucchetto. Mi aveva scritto anche una dedica. 
Quando ero piccola, mi ricordo che a volte ho parlato al telefono con lei, con questa signora tanto gentile che mi mandava dei regali. Una volta forse dovevamo anche incontrarci, in un'altra città, ma poi l'incontro è saltato e c'è stata una lite in casa, se non ricordo male.

Questi tizi greci si appoggiavano molto alla mia famiglia, perché erano qui, abbandonati a loro stessi, a studiare e a cavarsela come potevano. Erano gli anni settanta, e poi ottanta. Vivevano assiepati in piccole stanze, dove friggevano molto e preparavano lo yogurt bianco. Siccome non avevano neanche un telefono per comunicare con casa, ricevevano le telefonate dai miei, che gentilmente permettevano loro di usare il telefono per parlare con i loro genitori lontani. E in cambio, questi genitori, sapendo che qualcuno aiutava e badava ai loro figli in Italia, mandavano dei regali.
Una volta è venuta la mamma di Atanasio. Era una donna vecchia, molto vecchia, molto alta, tutta vestita di nero e con i capelli bianchi raccolti sulla nuca. Aveva un'espressione triste. Forse aveva visto dei brutti periodo della loro storia nazionale. Aveva le mani nodose e aveva portato anche lei dei ricordi e dei regali.

Mio papà non parlava mai di Kyros. Invece era amico degli altri. A volte guardavano la partita insieme, nel nostro salotto. E nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo io cercavo di attirare l'attenzione di Atanasio, ma lui mi dava i pizzicotti e mi prendeva in giro.
Poi un giorno è andato via, per sempre. Non è tornato più perché ha finito gli studi ed è diventato medico. 


La mamma ha fatto sparire la foto. Meglio. 



Capitolo 6





[Giselda 2004]

Sono nata nel 1940, assieme alla guerra. Abitavamo al casello della ferrovia che passa sul ponte che attraversa il fiume. Queste storie emergono dalla nebbia.
Dovevamo prendere l'acqua da una tromba. L'acqua era piena di sabbia e dovevamo lasciarla depositare. La luce non c'era, c'era la lampada a petrolio, che faceva un gran fumo.
D'inverno l'acqua della tromba gelava: si doveva andare col carretto in una cascina vicina e prendere una damigiana d'acqua. Un giorno, quando ero molto piccola, non so perché ma un tizio per farmi uno scherzo mi ha preso per un orecchio e mi ha messo sotto il getto d'acqua della tromba e mi ha pompato l'acqua nell'orecchio, facendomi stare male. Era un bullo. 

Mio papà nella stufa bruciava legna ancora verde, così durava di più, ma faceva un gran fumo pure quella.
Ora che ho visto internet e i cellulari, con il videotelefono e le foto dentro, credo che tutto questo è accaduto a qualcun altro in un'altra vita, perché troppo tempo sembra passato.

Il ghiaccio ovviamente non c'era nel frigorifero, perché non c'era il frigorifero!
Avevo sette anni e con la biciclettona venivo in Borgo [il più vicino centro abitato]. Lì vendevano il ghiaccio. Si tagliava. In una borsa attaccata alla bici si portava a casa il pezzo di ghiaccio, avvolto negli stracci. Ma quando si arrivava a casa era sciolto per metà. La ghiacciaia era un armadietto con uno scompartimento per il ghiaccio e degli scaffalini per il burro e le altre cose da conservare. Ogni giorno il ghiaccio - che si scioglieva, come è ovvio - andava rimesso.
Non avevamo il bagno. Mio papà aveva fatto un buco nella terra dietro casa e ci aveva messo sopra un'asse con il buco anche lei. E quello era il bagno. Al posto della carta igienica c'erano i fogli del giornale, tutti tagliati in striscioline e appesi a un chiodo a portata di mano.

La porta della casa era chiusa dall'interno con un rampone. Dentro c'era un'anticamera con una parete fatta di assi di legno, che mio papà aveva pitturato un po' di rosa. C'era un portacatino per lavarsi, un secchio di rame e una tazza per bere appesa sopra. La prima stanza conteneva un tavolo con dei sacchi di grano e appoggiata una bicicletta. Delle assi con delle bottiglie e una damigiana. Al soffitto di travi era appesa una moscarola con dentro i salami. 
L'altra stanza era la cucina. C'era il tavolo, un divano, una sedia grande e una stufa "a fuoco continuo", per cucinare e per scaldare l'acqua per lavarsi. I treni a vapore gettavano giù dei grossi pezzi di carbone per la gente povera. Mio papà li prendeva e li rompeva. Mentre  bruciavano si scioglievano, rossi fuoco, e facevano la colla. La brace la mettevamo nel ferro da stirare di ghisa.
C'era un bouffet, una credenza cioè, con l'impronta della sedia che mia mamma mi aveva tirato addosso. Vicino al bouffet c'era un tavolino con una radio a batterie, che Aurelio accendeva quando veniva da me. 

A Natale, al posto della radio si metteva un pino piantato nella terra, con le caramelle, i torroncini, i mandarini. Al mattino quelli che abitavano vicino andavano a messa in Borgo e al ritorno passavano sempre dentro e bevevano un grappino o la cioccolata, che si faceva solo a Natale.
Mangiavamo la robiolina con la mostarda, solo a Natale. Mia mamma ammazzava un pollo e faceva il pollo arrosto e i ravioli fatti da lei con il brasato. Tirava la pasta con la bottiglia perché non c'era il mattarello.
Io lavavo i piatti per terra, nel secchio, con un po' di acqua calda dalla stufa. Usavo il sapone e lo strubion, un pezzo di stoffa grama, al posto della spugna. Mio papà, quando avevo otto anni e la mamma non c'era perché stava nascendo mia sorella, mi ha messa davanti al secchio e mi ha detto che dovevo imparare a lavare i piatti.
A Natale la zia Leda portava qualcosa da mangiare o qualche regalo. Lo zio Mario intagliava dei regali nel legno: degli omini con la cordina, che se la tiravi ballavano il bughi.
Io e mia sorella dormivamo sopra, ma per salire dovevi passare da una scala esterna. Non c'era la stufa sopra. Faceva così freddo che il ghiaccio formava delle trine di pizzo sui vetri. C'era la lampada di vetro giallo scuro dei ferrovieri. Noi avevamo un po' paura, di stare sopra da sole, allora mio papà aveva fatto un buco nel pavimento per comunicare con noi dal basso. La notte ci dicevamo "Ciau dal bus".
A Capodanno era lui che ci svegliava, così era un uomo la prima persona che vedevamo e ci avrebbe portato fortuna.


[Foto di KoolShooters da Pexels]




lunedì 28 giugno 2021

Capitolo 5



[Isaura 1996]

Ciao, sono di nuovo Isaura. Non mi lascia mai uscire, cioè, non come gli altri. Gli altri tornano a mezzanotte, io devo tornare alle dieci e pà mi viene a prendere. Io mi vergogno! Ho diciassette anni, non esiste! C’è Simone e io mi vergogno! Non esiste che siamo tutti fuori, in Strada Nuova, fuori da una pizzeria, e gli altri stanno chiacchierando e ridendo e c’è Simone, forse mi guarda… io mi sono messa tutta bella, meglio che potevo, per piacergli… e arriva pà e mi preleva e mi porta via, di fronte a tutti, come se avessi dieci anni!!! Ma che figura di merda ci faccio? Poi sembro la sfigata, ancora più di prima. Non basta che sono la secchiona della classe, assieme alla Linda e alla Frida. Già non ci parla nessuno, con noi, perché sappiamo sempre tutto e loro non sanno mai niente, figuriamoci poi se mi compare mio papà di fronte a tutti e mi porta via, un’ora e mezza prima degli altri, proprio quando loro sono fuori a chiacchierare e a scherzare e a fare un po’ i grandi. Stanno decidendo se andare a bere qualcosa in un altro posto, e io devo andare a casa con il papà perché la mamma mi aspetta. Madonna, vorrei scomparire… meglio che la prossima volta non ci vengo più.

Poi posso capire ste uscite di gruppo con la classe, magari non si fidano, ci sono tanti drogati in giro, poi la sera… ma non mi lascia andare nemmeno ai pigiama party della Linda! Lì siamo tutte femmine e tutte a casa della Linda, con i genitori di lei. Tutte si fermano a dormire, dopo una bella giornata di giochi e scherzi e video divertenti girati con la mia videocamera nuova… e la sera sarebbe bellissimo stare a ridere, tutta notte, addormentarsi e risvegliarsi e dire ancora cavolate, nel buio, mentre gli adesivi fluo della Linda brillano nel buio sul soffitto di legno, e invece la serata è rovinata quando compaiono i fanali brillanti della macchina di pà. Spezzano il buio del giardino della Linda, arrivano dentro e la festa è finita. Suona il clacson, devo andare. La Linda mi chiede tutte le volte: “ma non puoi telefonare a tua mamma e dirle che ti fermi? Le parla mia mamma!”. Arriva anche sua mamma a rincarare il disagio: “Se vuoi le parlo io, deve stare tranquilla, siamo qui anche noi, non vi succede niente! Dille che ti lasci un po’ libera, no? Ormai sei grande!”. Ma io solo all’idea ho una paura folle, mia mamma mi ucciderebbe di lamentele, me la farebbe pesare tantissimo, per averle fatto fare una brutta figura con la mamma della Linda, per cui desisto ancora prima dell’anticamera dell’idea e mi ritiro mestamente.


Uffa, era tutto molto più semplice e più bello quando ero piccola. Quando non mi importava nemmeno dei pigiama party o di Simone. Mi interessava solo di giocare con pà o della sera della Vigilia dalla zia. Era bellissimo quando andavamo dalla zia, quella sera, e con una scusa ci facevano andare in un’altra stanza a vedere qualcosa, tipo una tenda nuova, e quando tornavo di qua la sala era coperta di giocattoli per me! Io ci credevo davvero, che Gesù fosse passato di lì in quel momento, vestito con la tunica bianca, anche se faceva freddo. Si sentivano passi sulle scale e c’era la luce accesa, allora correvo fuori, sul pianerottolo, e urlavo: “Gesù, aspetta!!”.

Non mi spiegavo perché io fossi così speciale da far fare a Gesù un doppio giro dalle mie parti, in meno di 12 ore, con tutti i bambini del mondo cui doveva recapitare i regali. Perché passare la sera della Vigilia per portarmi i regali dalla zia, fare il giro del pianeta, e tornare la mattina presto a casa mia per lasciarmi il resto del carico?




Non sapevo decidermi se amassi di più il Natale o l’Estate. Il primo era più fitto di magia, giocattoli, luci, l’albero… ma la seconda era più lunga, calda, piena di cartoni animati e giochi con pà, davvero dura a decidersi. C’era una parola magica per me, in quel periodo caldo: ferie. La parola ferie voleva dire che pà poteva stare a casa dal lavoro e giocare con me tutto il giorno. Mi metteva sul seggiolino della bici e mi portava alla baracca, quel locale lungo il fiume dove la gente si trovava a giocare a carte e mangiare un ghiacciolo. Io giocavo con qualche bambino che passava di là o con pà, più spesso. Trovava sempre modi nuovi per farmi giocare. Mi insegnava a nuotare con i braccioli nel fiume. Costruiva per me stranissimi castelli di sabbia bagnata, che sembravano nascere sui fondali del mare, facendo cadere dalle dita la sabbia intrisa d’acqua, che andava a impilarsi in precarie colonne, con la forma dei coralli, fino a quando il peso non le faceva crollare per aver ecceduto con il rischio. Potevi giocare a un gioco così: ognuno aggiungeva dell’altra malta bagnata, lentamente, per non fare cadere la pigna di sabbia… e quello che rischiava troppo e la faceva crollare aveva perso.




Passavo intere giornate con mio papà. Mi faceva giocare a tennis. Aveva costruito un canestro di metallo con la rete, per me, e si era ingegnato su come fissarlo a una porta del sottoscala, a casa della nonna. Mi insegnava a palleggiare e a tirare. Giocava con me a pallone, io volevo stare in porta perché avevo un’adorazione per Walter Zenga. Allora mi avevano anche comprato un paio di costosissimi guanti da portiere, professionali, solo per il piacere di indossarli mentre giocavo con una innocua palla di gommapiuma. A calcio davvero non ci avrei mai giocato. Non avrei mai fatto uno sport, né in solitaria né in squadra. La mamma pensava che non avrei sopportato lo sforzo fisico. A scuola mi facevano fare un esonero a inizio anno, che giustificasse il fatto che non potessi fare ginnastica. Non era vero, almeno per me, ma la mamma diceva che se mi fossi ammalata avrebbe tribolato lei, perciò il dottore firmava sempre l’esonero a inizio anno e io ogni volta facevo la figura della scema, di fronte ai compagni, perché ero quella che non faceva l’ora di ginnastica. Servivo solo a portare il registro dalla classe delle femmine a quella dei maschi, al liceo, perché non facevamo più ginnastica insieme, eravamo troppo grandi. Una volta alle medie ho convinto la mamma a farmi fare ginnastica. Ho corso molto bene, nel circuito dei portici. Ho segnato un sacco di punti di fila a pallavolo, a servizio. Mi faceva male la pelle quando la palla si schiantava sul braccio, ma faceva niente. L’anno dopo ho smesso di nuovo di fare ginnastica. A una visita ortopedica mi avevano chiesto cosa mi piacesse fare. Avevo risposto “ritmica”. Avevo in mente il cartone animato di Hilary. E il dottore aveva risposto: “E allora ritmica, le faccia fare ritmica”. Ma non l’ho mai fatta. 

E così avevo un costosissimo paio di guantoni da portiere professionali, in gomma espansa speciale. Ma non avevo mai fatto sport con nessuno. Giocavo solo con mio papà, durante le ferie, nelle lucenti giornate d’estate.





[Foto di Lisa da Pexels, NastyaSensei da PexelsPixabay e Michael Morse da Pexels]

Capitolo 4



[Giselda 1948]

La mamma mi frega sempre. Non mi piace fare tutta questa erba per i conigli, il sacco non è mai abbastanza pieno. Allora quando la raccolgo, nei prati, la lascio morbida, così sembra di più e il sacco si riempie subito. Ma quando vado a casa la mamma lo scrolla, l’erba si schiaccia e il sacco sembra mezzo vuoto, allora mi sgrida e mi rimanda indietro. 

Ormai è sceso il freddo e il papà mi ha costruito due fodere di pelliccia di coniglio, da legare alla bicicletta, sul manubrio, dove posso infilare le mani. Così non mi gelano quando vado a scuola. Ho sette anni e devo andare a scuola in Borgo. È lontano dal casello, ci metto tanto. Ma so la strada e devo solo pedalare e stare attenta. Fa tanto freddo, ma a scuola ci devo andare. Non mi piace. Vorrei essere un tacchino, così non dovrei andare a scuola.

Ieri ero con Annina, stavamo andando a piedi in Borgo, quando nel boschetto ci ha fermate un uomo. Non ho capito cosa voleva. Aveva una cosa tra le gambe che sembrava il manico di una scopa. Ci ha detto di avvicinarci. Ma Annina si è spaventata ed è corsa via. Io sono rimasta lì e non capivo cosa voleva quello lì. Dopo un po’ è tornata Annina con il suo papà e un altro uomo, hanno gridato e quello là della scopa si è girato, si è spaventato e è scappato via. Non ho mai capito cosa voleva.

Oggi mio papà e il papà di Annina sono venuti a prendermi, assieme ad Annina siamo andati a casa di qualcuno, non sapevo chi era. Poi in una stanza c’era l’uomo della scopa. I papà ci hanno guardato e ci hanno chiesto: “è quello lì?”. Io ho fatto sì con la testa e anche Annina, che era spaventata. La donna dell’uomo aveva la pancia. I papà ci hanno detto di uscire e poi si sono sentiti dei colpi e delle grida con la voce di quell’uomo là.

È venuta la polizia e hanno discusso un sacco con la mamma e il papà. Gli hanno detto che non dovevano tenersi per sé l’accaduto, che non si può fare giustizia da soli, che la prossima volta se non li denunciano nei guai ci vanno loro. Poi mi hanno chiesto che cosa ho visto e io ho detto che ho visto un coso come un manico di una scopa.

[Foto di Sem Steenbergen da Pexels]

Capitolo 3


[Isaura 1985]

Ho sei anni e mezzo, oggi la mamma mi ha comprato il mio primo grembiulino bianco per andare a scuola! Ho un po’ paura, ma ho visto nei cartoni animati le protagoniste gridare qualcosa come “non ci posso credere!”, aprire le braccia e buttarsi sul prato a pancia in su, ridendo e guardando il cielo, quando succede qualcosa di bello e nuovo. Faccio anch’io così, sul letto, e guardo il soffitto: inizio la scuola! Siccome ho un po’ paura di trovare dei bambini che non conosco, oltre alla maestra, chiedo alla mamma come sarà.

Ci saranno i bambini che c’erano all’asilo, vedrai – mi rassicura lei, gentile.

E infatti quando entro in classe riconosco subito la bambina bionda con il caschetto che c’era all’asilo. Bene, allora non fa tanta paura. Poi la maestra sembra uguale a lei, solo più grande e più vecchia. Forse è una donna buona. Non avrò paura. E poi io so già leggere e scrivere da due anni!


La maestra oggi ha deciso che passerà dalle sillabe alle prime parole. Ci ha messo un sacco di tempo a spiegare l’alfabeto, le sillabe… io me la ridevo un po’ sotto i baffi perché per me era tutto già fatto, mentre gli altri bambini sono partiti da zero, tutti tranne Marco, credo, che è bravo forse come me. Oggi la maestra ha scritto le prime parole alla lavagna, divise in sillabe, separate da un trattino. Sono scritte in modo gigante, io leggo le parole della gazzetta da anni, scritte piccolissime e senza trattino. Chiama proprio me alla lavagna per provare a leggere.

Ma è una parola un po’ più difficile delle altre – mi dice, cercando di incoraggiarmi.

C’è scritto solo BAF-FO, e a lei sembra difficile perché c’è la doppia, ho capito il suo gioco. A me di sillabare non va, leggo a voce alta: Baffo! Lei spalanca gli occhi e mi dice: Ah… però spiega agli altri bambini come hai fatto. B più a fa Ba…

Si vabbè, lo spiego.

[Isaura 1986]

Ho sette anni e mezzo oggi. E anche oggi ho vomitato sulle scale. La maestra urla sempre, ci prende per i capelli e ci strattona, sollevandoci dalla sedia. Non ce la faccio più. Tutte le mattine ho così tanto l’ansia che quando arrivo al primo pianerottolo non riesco a trattenermi e vomito. Povera me. Non posso andare a scuola tutti i giorni così. Ho paura di quella lì.

Mi hanno ricoverata all’ospedale. Ho solo sette anni e mezzo. Ma ho la gastrite. 

La sera in pediatria c’è una sala dove tutti i bambini vanno a vedere i cartoni animati. Fanno Alice. Io a casa mi sono esercitata tantissimo a cantare come Cristina d’Avena, ne imito la voce. Sono un po’ tanto timida, ma quando c’è la sigla prendo coraggio e mi metto a cantare la canzone di Alice. Prendo coraggio e seguo il sali e scendi della musica. La mia voce si riempie e riempie tutta la stanza. I bambini sono estasiati e una mamma dice “Ha la voce di Cristina d’Avena!”. Ho avuto la mia vittoria.

Il cibo dell’ospedale non mi piace, ma forse andrò a casa. Qualcuno dice che la maestra se ne andrà, ha due ulcere. Ha divorziato dal marito ed è per questo che urla sempre con noi, ma finalmente se ne andrà e forse la smetterò di vomitare.


domenica 27 giugno 2021

Capitolo 2



Ciao, sono Isaura, ho quattro anni e oggi mi stufo tantissimo. Gli altri bambini vanno all’asilo e giocano e hanno gli amici. Io sono a casa con la mamma, ho tanti giocattoli, ma gioco da sola. Io vorrei andare all’asilo e giocare con gli altri bambini. Oggi mi attacco con le mani alle sbarre della ringhiera del balcone, e guardo giù. Sono silenziosa e un po’ triste. La mamma esce sul balcone, sta facendo i mestieri, mi chiede che cos’ho. “Voglio andare all’asilo” – le dico a voce bassa, cercando di infilare la testa tra le sbarre della ringhiera.

All’asilo ci vado, ma dopo due giorni mi viene il mal di gola. Sto a casa finché non mi passa. Poi vado ancora all’asilo. Mi viene ancora il mal di gola. La mamma viene a prendermi, le corro tra le braccia, ho un po’ una lacrima in tasca, le faccio vedere che le suore mi hanno dato due caramelle, una rosa e una bianca, che mi si stanno sciogliendo in bocca. Andiamo a casa e all’asilo non ci torno più.

A casa il papà mi ha costruito un alfabeto di cartone. Lui torna tardi la sera, tutto sporco e stanco, fa l’operaio. Costruisce dei cosi che si chiamano autoclave. Il jeans che ha su quando entra in casa puzza di fabbrica. È un odore strano ma non mi dà fastidio. Poi lui fa sempre delle cose che si chiamano straordinari, ma non ho capito bene cos’è, lo fa tutti i giorni. Arriva la sera stanco, mangia, poi mi costruisce le lettere di cartone. Ieri sera ha aperto il librone e ha disegnato una bellissima bambina col cappello per me, sembrava un cartone animato, era piena di colori. Lui disegna benissimo. Un giorno voglio disegnare come lui. E poi mi inventa i rebus. L’altro giorno mi ha disegnato un uccellino che beccava degli ossi e io dovevo capire cos’era. Siccome a me piace l’Inter come al mio papà, ho capito subito che era Beccalossi.

Con l’alfabeto di cartone mi diverto un sacco. Mio papà mi ha messo tutte le lettere, che sono grandi un po’ più della mia mano, in un sacchetto di plastica della mamma, quelli per il frigor. Io al mattino mi metto in cucina e le tiro fuori una a una e le allineo tutte sulla cassapanca. La mamma intanto passa la lucidatrice in una delle stanze della casa, di là. Allineo le lettere, che hanno un contorno ripassato con il pennarellone scuro, e formo qualcosa che è molto lungo e probabilmente non è una parola. Ma prima o poi capirò cosa sto scrivendo.

Oggi ero sul balcone col papà, è domenica e lui era seduto con la gazzetta in mano. È tutta rosa, che bel giornale. Io mi sono seduta sotto, per terra e guardavo le lettere. E poi ho capito e gli ho letto delle parole che stavano lì, girate sul foglio verso di me. Il papà era molto contento e l’ha detto subito alla mamma. Ho quattro anni ma adesso so leggere. Il papà mi ha spiegato tutto e ora imparerò anche a scrivere.


[Foto di Tatiana Syrikova da Pexels]


Capitolo 1

Ciao, sono Giselda, ho nove anni e questa sera fa buio, c’è la nebbia e devo andare sui binari a mettere i petardi. Quando tra settant’anni ...